A Faè sono conservate alcune reliquie di quattro santi: San Tommaso Apostolo, San Tiziano, San Sebastiano e Sant'Antonio Abate. Di seguito una breve storia dei quattro Santi a cura di Giuliano Ros.
SAN TOMMASO
Thōmâs († 72 d.C.), Apostolo di Gesù nato in Galilea. Il nome deriva
dall’aramaico “to’mā”, che significa “gemello” (in greco: “dídymos”). Oltre all’episodio
dell’Incredulità (Gv. 20, 24-29) 1 , nei Vangeli canonici sono riportati altri due suoi interventi:
prima della Resurrezione di Lazzaro (Gv. 11, 14-16) 2 e durante l’Ultima Cena (Gv. 14, 5-
7) 3 . Dopo aver fatto tappa a Ninive in Assiria (attuale Nīnawā in Kurdistan), ove si trova la
più antica chiesa intitolata a lui, evangelizzò la Siria, la Persia e l’India (52 d.C.),
convertendo gli abitanti di Aden (M. Polo) e subendo il martirio a Calamida [attuale
Mylapore] nella regione di Maabar [Coromandel] (72 d.C.) da parte degli idolatri gavi
(paria). Fu sepolto a Édessa [attuale Urfa], antica capitale della Osroene (in
Mesopotamia), ma nel XIII secolo le sue spoglie furono portate in salvo a Ortona
(Abruzzo). Prima delle disposizioni del Concilio Vaticano II (1965) la festività cadeva il 21
dicembre. Gli sono stati attribuiti tre scritti apocrifi (Apocalisse, Atti e Vangelo) di
ispirazione gnostica. Nell’iconografia viene rappresentato col libro (fino al sec. XIII), con la
lancia (strumento del suo martirio), con la squadra d’architetto (in memoria del palazzo
che, secondo la leggenda di Jacopo da Varazze, doveva costruire in India per il re
Gondoforo) o semplicemente con il dito alzato nell’atto di provare a toccare come nella
Ultima Cena dipinta da Giovanni di Francia nella chiesa di San Giorgio a San Zorzi di S.
Polo. Nella diocesi di Ceneda è patrono di tre parrocchiali (Faè, Col e Caneva) e di tre
cappelle (Follina, Ronchena e Zottier). Protagonista di miracoli e apparizioni post-mortem
(come al ricco barone, che nel 1288 aveva fatto empiere di riso tutte le chiese della
provincia di Madras in India), Tommaso è invocato per la guarigione dei Cristiani che
contraggono la lebbra (M. Polo). Dal repertorio dei proverbi veneti proviene l’avvertimento
che “da San Tomìo [21 dicembre] le dornàde le torna indrìo”.
SAN SEBASTIANO
Sebastiano († 288), martire narbonense nato in Gallia, ma vissuto a Mediolanum (nella
regio Transpadana), ove raggiunse il grado di comandante della guardia pretoria per la
difesa dell’imperatore Diocletianus a Roma. Per la sua adesione al Cristianesimo, il
prefetto lo denunziò all’imperatore, davanti a cui si difese dicendo di avere sempre adorato
Cristo proprio per la salvezza dell’imperatore e di avere sempre “pregato Dio che è nei
Cieli per l’Impero Romano”. Diocleziano ordinò di legarlo in mezzo al Campo di Marte a
Roma, ove venne fatto trafiggere dalle frecce come “un riccio”. Miracolosamente
resuscitato dal Signore e curato dalla vedova Irene, Sebastiano rimase “ritto in piedi sulla
gradinata del palazzo imperiale”, dalla quale “rimproverò aspramente l’imperatore per il
male che stava facendo ai servi di Cristo” (Jacopo da Varazze) 1 . Viene iconograficamente
rappresentato “nudo, coperto del solo perizoma, legato al palo del supplizio, bersagliato da
una gran quantità di frecce” (G. Fossaluzza) 2 . Nell’arte divenne simbolo di “fermezza di
fronte al destino”, “grazia nella sofferenza” intesa come “azione attiva (trionfo positivo)”,
espressione financo di “una virilità intellettuale e giovanile che con fiero pudore stringe i
denti e rimane salda e tranquilla, mentre lance e spade le trafiggono il corpo” (Th. Mann) 3 .
Poiché le frecce erano anticamente ritenute portatrici di malattie (e nelle immagini
appaiano infatti simili a dei bubboni), San Sebastiano venne invocato fin dalla Tarda
Antichità contro le pestilenze, dacché sopravvisse al supplizio come un Cristo Risorto.
Nella cultura contadina veneta il giorno di San Bastian (20 gennaio) indica l’apice del
freddo (“co la viola in man”) e scandisce il ritmo del consumo delle scorte invernali ancora
a disposizione (“mezo fién e un terço de pan”). Nella diocesi di Ceneda sono dedicati al
santo tre oratori (Col, Colderù e Seraval).
SANT'ANTONIO
Antōnios (252-356), monaco egiziano nato a Koma (Tebaide). Fondatore del
monachesimo anacoretico e dell’ascetismo, è stato il primo degli abati e il capofila dei
Padri del Deserto. La Vita sancti Antonii, scritta dal vescovo di Alessandria Atanasio,
costituisce nel contempo il primo trattato di demonologia per le comunità cristiane della
nuova età post-costantiniana che, abbandonato il Paganesimo, si stavano addentrando
“nella vita nuova del Vangelo, quasi un labirinto che lascia aprire il percorso a mano a
mano che lo si compie” (G. Fedalto). Viene iconograficamente rappresentato come un
vecchio con la lunga barba indossante l’abito monastico con il bordone (in riferimento alla
sua missione di buon diffusore della Fede), il segno della crux commissa o croce egizia
taumata (simbolo di vita futura e immortalità), la campanella (che annuncia l’arrivo dei
questuanti dell’Ordine Antoniano, fondato a Viennois in Provenza nel 1095), lingua di
fuoco sul palmo della mano destra (simbolo di Fede) e il libro (che allude ai Detti da lui
scritti) e ai piedi il maiale. Nella diocesi di Ceneda, a fronte di una dozzina di oratori a lui
dedicati (tra cui uno a Guja di Cavalier), vi è la sola titolarità della parrocchiale di Tortal (in
Val Belluna). Oltre a pale d’altare di notevole spessore artistico (nelle chiese di S.
Leonardo di Moriago, Farra di Mel e S. Antonio di Vergoman), la nostra diocesi vanta un
intero ciclo affrescato della vita del santo nella chiesa a lui dedicata di Bardiés (in Val
Belluna), recentemente restaurata e riaperta al culto, realizzato in due tempi da Marco da
Mel e Cesare Vecellio (XVI secolo). Affrescati entro loggette architettoniche e
“accompagnati da un velario corrente a fasce verticali e cartigli didascalici nella porzione
inferiore e una fascia sottotrave con grottesche e clipei con busti di santi” (C. Falsarella), i
diciotto riquadri narrano in senso orario le azioni di carità del santo in età giovanile, le
tentazioni durante l’eremitaggio e infine gli atti miracolosi (guarigioni, visioni e profezie)
compiuti con i suoi discepoli. In area veneta viene principalmente invocato nel giorno a lui
dedicato a protezione del bestiame e degli animali domestici (benedetti nel sagrato delle
chiese) e contro gli incendi nelle stalle. Definito “custode dell’Inferno” (dal quale riusciva a
sottrarre le anime), veniva altresì invocato contro l’ergotismo (sfògo de santantònio),
causato da un fungo velenoso presente nella segale usata per la panificazione (A.
Cattabiani) e che gli Antoniani sapevano curare con il grasso del maiale benedetto e fatto
liberamente circolare per il paese (porçèl de Sant’Antoni). In alcune giaculatorie venete il
santo era invocato dalle zitelle per trovare marito e dalle donne çiàpe (sterili) per ricevere
la fertilità (D. Coltro). Il giorno a lui dedicato (17 gennaio) cade esattamente dodici giorni
dopo le Dodici Notti Sante, per cui i proverbi calcolano che “da Sant’Antònio abà n’ora
passà” oppure “a Sant’Antònio un pas de Demònio”.
SAN TIZIANO
Ticianus († 632 d.C.), presbitero veneto nato nell’isola lagunare di Melidissa (attuale
Eraclea/Grisolera), dentro il territorio dell’antico vescovado di Opitergium, che all’epoca faceva
capo all’esarca bizantino di Ravenna (il rappresentante diretto nell’Alto Adriatico dell’impero
romano d’Oriente con capitale a Costantinopoli). Discepolo del vescovo Florianus a
Opitergium, Tiziano lo sostituì alla cattedra episcopale nel 612 d.C. (allorché Florianus venne
chiamato a Costantinopoli presso la Corte dell’imperatore Heraclius), reggendo la diocesi per
un ventennio (632 d.C.). Dotato di “un’eccellente preparazione pastorale”, durante il suo
episcopato ebbe a lottare strenuamente contro l’eresia ariana, mantenendo la nostra diocesi
“immune da cedimenti nei riguardi dell’ortodossia” (R. Bechevolo). È durante il suo episcopato
che avvenne l’uccisione di Taso e Cacco, figli del duca longobardo del Friuli Gisulf I, da parte
del tribuno di Opitergium (il patrizio ravennate Gregorius) “con un inganno sleale nella città di
Oderzo” (Paulus Warnefrith detto Diaconus). Ricco di virtù e meriti, Tiziano beatificò la chiesa
opitergina “con opere di pietà, di santità, di modestia” (G.B. Bastanzi), morendo “circondato
dalla fama di taumaturgo” e divenendo “protettore dei mali di ventre come gonfiezze e
idropisie” (D. Coltro). Patrono del vescovado di Ceneda, a san Tiziano sono dedicate cinque
chiese nella nostra diocesi (Francenigo, Patean, Farrò, Staffolo e Frontin), tre in quella di
Belluno (Goima di Zoldo, Oregne di Sospiroi e Cirvoi/Çergói di Castion) e una in quella di
Venezia (Stretti), a cui va aggiunto l’oratorio che si trovava in un’isola fluviale a Settimo di
Portobuffolè fino al XVIII sec., sorto a indicare il luogo in cui nel 652 d.C. sarebbe approdata la
salma del santo nel suo leggendario viaggio a ritroso lungo la Livenza (R. Bechevolo). Molte
chiese raccontano con splendidi cicli di affreschi la vita del santo o la storia della contesa e
della traslazione della sua salma a Ceneda, scelta come nuova sede della diocesi dopo la
distruzione di Opitergium (641 d.C.). Il ciclo più completo, che si trova nella chiesa di Frontin in
Val Belluna (ove “riveste pressoché completamente le pareti dell’aula, creando anche
illusionistici effetti di sfondato”), racconta in sette riquadri le opere pastorali del santo
(l’elemosina ai poveri, la facondia per animare il clero locale, l’insegnamento a pregare e ad
amare). Gli altri cicli (di Pino Casarini nella cupola del transetto della cattedrale di Ceneda, di
Palma il Giovane nella retrofacciata del duomo di Oderzo) si ispirano alle cinque formelle della
cantoria dell’organo della cattedrale dipinte da Pomponio Amalteo nel 1534, incentrate sulla
leggenda della traslazione della salma da Oderzo a Ceneda, “narrata con semplicità […] con
la suggestione di eventi miracolosi” (L. Menegazzi). Profondo significato spirituale ispira l’icona
a sei scene scritta recentemente da Nikla De Polo ed esposta nella cripta della cattedrale. Il
lunario contadino veneto pone al 16 gennaio l’acme del gelo (“da San Tiçiàn el fret ghe
cava i dent al can”), pur nell’avanzamento percepibile della luce diurna (“’n antro palmo de
man”).
Giuliano Ros
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